In quasi tutte le case c’è una televisione vicino a un tavolo da pranzo e puntualmente durante i pasti catalizza l’attenzione dei commensali, favorendo l’insorgere di disturbi alimentari. La cosa più tipica è cenare, guardando il telegiornale. È un grave errore, per l’effetto ipnotico della tv che spinge ad avere abitudini alimentari sbagliate: c’è chi, preso dal suo programma preferito, mangia troppo o chi, invece, troppo poco.
Secondo i dati dell’ dell’Osservatorio ADI – Nestlé, il 33% delle persone che consuma i pasti davanti al piccolo schermo è obeso, mentre il 27% è sottopeso, mentre il 30% è in sovrappeso. Le percentuali sono state raccolte su un campione molto vasto, 13 mila persone, durante uno studio per verificare le abitudini alimentari del Paese.
Allargando però lo spettro, i ricercatori hanno intervistato anche una porzione di italiani obesi: è risultato che il 43% di loro consuma regolarmente (oltre 5 volte la settimana) i pasti davanti alla TV; la percentuale si abbassa con i sovrappeso (39%). Nei normopeso la percentuale scende ancora (33%). Il dato però che preoccupa di più riguarda un 28% di connazionali che mangia 7 giorni su 7 in compagnia della tv, dimenticando che il pasto è prima di tutto un modo per stare insieme e comunicare con genitori, figli o amici i fatti della giornata.
Giuseppe Fatati, coordinatore scientifico dell’Osservatorio ADI-Nestlé e presidente della Fondazione ADI, ha commentato:
Non si tratta di un atto di accusa alla televisione: è forse però il caso di toglierla dal menu abituale dei nostri pranzi e delle nostre cene. L’aumento di peso è spiegabile con la scarsa considerazione prestata a quello che si mangia in relazione ad un’attività passiva che assorbe in toto l’attenzione.
Anche uno studio inglese ha riportato dati “inquietanti”. Secondo i ricercatori dell’University College London, trascorrere molto tempo davanti al televisore provoca un generico incremento delle malattie mortali pari al 48%, mentre fa aumentare del 125% il rischio di morire per patologie cardiache. Questa teoria è il frutto di una ricerca condotto su oltre 4mila persone seguite per 4 anni, durante i quali 325 sono morte e 215 hanno avuto almeno una malattia cardiovascolare.
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